L’immigrazione è un fenomeno enorme e complesso, capace di cambiare il volto di una società. Se in meglio o in peggio, sta a noi deciderlo. Il “fenomeno” immigrazione, infatti, presenta notevoli implicazioni economiche, sociali, culturali, di ordine pubblico. Presenta sia problemi sia benefici, che non sono un dato fisso e inevitabile, ma il risultato della nostra capacità di gestirlo.
Ogni discussione su questo tema, però, non può essere una fredda comparazione di costi e benefici. Non bisogna mai dimenticare che il “fenomeno” immigrazione è fatto dagli... immigrati: uomini in carne ed ossa, con le loro storie, le loro speranze, le loro paure e debolezze, i loro diritti (e i loro doveri), la loro creatività, la voglia di rendersi utili (o di approfittare delle situazioni), i loro vincoli familiari.
La dimensione dell’immigrato-uomo spesso è trascurata anche da coloro che vedono nell’immigrazione solo una risorsa, e che si vorrebbero porre come paladini degli immigrati. Ma vedremo che proprio la dimensione di umanità può essere calpestata e offesa, se l’immigrazione è incoraggiata senza nessuna gestione o controllo.
1. Problemi e benefici connessi all’immigrazione.
Esistono numerosi problemi che possono derivare da un’immigrazione eccessiva e non regolamentata, e che possono recar danno alla società, ma anche ferire la dignità stessa degli immigrati (come degli Italiani più deboli):
Inoltre, non bisogna dimenticare i nostri doveri di solidarietà, né i benefici e le risorse che pure vengono dall’immigrazione:
2. I criterî fondamentali per “gestire” l’immigrazione.
Come dosare problemi e risorse? In che cosa consiste la “gestione”, la “regolamentazione” del fenomeno migratorio?
I criterî fondamentali sono a nostro avviso due:
2.1. Programmazione dei flussi.
L’immigrazione non è un “diritto” in sé. Ricordiamo che ad ogni diritto corrisponde un dovere, e che l’adempimento di questo dovere dev’essere possibile. (Ad esempio, possiamo dire che un figlio ha diritto alla migliore istruzione possibile; non che possa pretendere - da genitori che non ne hanno la possibilità – la frequenza di master all’estero).
Ciò nondimeno, esiste un dovere morale, di solidarietà umana, ad aiutare ed accogliere le persone in condizione di bisogno. Questo dovere deve essere esercitato, appunto, nei limiti in cui sia realisticamente possibile, nei limiti in cui l’accoglienza offerta sia dignitosa (non si può dire: “vieni e arrangiati”), nei limiti in cui consenta il rispetto del bene comune della società ospitante.
Possiamo e dobbiamo, dunque, accogliere gli immigrati – e le loro famiglie - ai quali siamo in grado di offrire un lavoro. Programmando il numero di coloro che possiamo accogliere, e assicurando il rispetto di questa programmazione (se necessario, con respingimenti alle frontiere e rimpatrî obbligati).
Inoltre, possiamo accogliere gli immigrati che abbiano effettivamente il desiderio di contribuire al bene comune della società che li ospita. Per chi delinque, non si può considerare un dovere di solidarietà garantire l’ “ospitalità” nelle nostre prigioni...
2.2. Integrazione degli immigrati.
Gli immigrati - a parte quelli temporanei (stagionali, per motivi di studio) - sono in larga parte persone che entrano in nuovo Paese per costruirsi una nuova vita, stabilirvisi a lungo, in molti casi per sempre. Ebbene, è necessario che questo inserimento avvenga senza conflitti con la società che li ospita, costruendo una graduale reciprocità di diritti e doveri.
Un immigrato, dunque, deve rispettare innanzi tutto le leggi del Paese che lo ospita. Non possono esserci zone franche, quartieri di immigrati, dove queste leggi (con particolare riguardo ai diritti fondamentali delle persone: diritti delle donne, dei bambini) non sono rispettate.
Rispettando tali leggi, l’immigrato potrà esigere il rispetto dei diritti umani e di libertà (personale, di inviolabilità del domicilio, di espressione, di religione, di tutela giudiziaria, di istruzione per i minori) che la Costituzione riconosce a chiunque soggiorni nel nostro territorio; nonché il rispetto dei diritti connessi alla propria prestazione lavorativa e dei diritti di prestazione economica connessi alle tasse versate.
A questo primo livello di integrazione – la capacità di rispettare regole comuni – ne dovrà seguire uno ulteriore: la cittadinanza. Si tratta dello status cui sono connessi i diritti civili e politici, cioè i diritti che la Costituzione riserva ai cives, ai cittadini: la pienezza del diritto a circolare e soggiornare in ogni parte del territorio e del diritto di associazione; la possibilità di ottenere politiche di sostegno sociale allargate; la possibilità di determinare (con il voto) gli indirizzi e le regole della comunità.
La necessità di graduare il godimento di tali diritti – e di pretendere il rispetto di corrispettivi doveri – deriva dal fatto che una comunità non si regge solo sulle leggi economiche, su logiche di scambio. Una comunità ha regole di convivenza sociale che sono l’espressione di valori comuni. Una comunità ha bisogno di legami di solidarietà che non possono essere imposti, ma si attivano se c’è reciproco riconoscimento tra i membri della comunità stessa.
Non si è più immigrati, ma cittadini a pieno titolo, dunque, dopo aver appreso la lingua di un Paese, dopo avervi vissuto un numero di anni sufficiente a comprenderne la mentalità e la cultura, e a condizione di condividere i valori fondamentali espressi dalla Carta costituzionale di quel Paese. Dopo che si è raggiunto, insomma, un pieno livello di integrazione. Convinzione che sembra maturare nella sinistra italiana (vedi le posizioni di Barbara Pollastrini).
I criterî che abbiamo delineato per la gestione dell’immigrazione potrebbero sembrare troppo rigidi o apodittici. Per approfondirli meglio, e comprenderne l’importanza, possiamo esaminare i luoghi comuni, i pregiudizî, le esigenze economiche, le ideologie politiche che animano il dibattito sulla materia, soprattutto da parte di coloro che – da fronti opposti - sono contrarî ad una gestione del fenomeno: o perché pensano che l’immigrazione debba essere assolutamente libera; o perché pensano che vada semplicemente impedita.
3. Quelli che dicono “l’immigrazione è una risorsa”.
Ma chi sono coloro che incoraggiano un’immigrazione intensa, con maglie larghe (o addirittura senza controlli)? Quali argomenti propongono?
3.1. La domanda di manodopera delle imprese.
Tra i fautori di un’immigrazione intensa ci sono molti imprenditori, che richiedono manodopera per i lavori “che gli Italiani non vogliono più fare”. Ma è davvero così?
Ci sono, effettivamente, alcuni lavori che negli ultimi anni, con la diffusione del benessere, gli Italiani amano sempre meno. Si tratta soprattutto delle attività considerate più “umili”, che richiedono grande fatica, che comportano rischi: badanti, operai non specializzati, braccianti agricoli.
La realtà non è però così semplice. Non è che in Italia si studi più che in passato: la percentuale di laureati è stabile, nonostante il percorso di studi sia spesso più facile e siano state create numerose opportunità di formazione specialistica “breve”. Molti Italiani cercano lavoro senza avere grande professionalità. Davvero sono tutti presuntuosi e sfaticati, davvero pretendono tutti un lavoro “dietro la scrivania”?
O non sarà che, spesso, certi lavori gli Italiani non li vogliono fare perché quei lavori sono mal pagati, perché non si è tutelati dai rischi mediante adeguate misure di sicurezza?
“Ma il costo della manodopera non può salire troppo, altrimenti le imprese non sono più competitive”. Anche qui, c’è parecchia ipocrisia.
Quanto incide la manodopera nel manifatturiero, uno dei settori più proiettati all’esportazione (e quindi con l’esigenza della competitività)? Il 20-30% del prezzo finale. Il resto è ripartito tra profitti, ricerca, costi per macchinari e processi di trasformazione, costi energetici, pubblicità e – soprattutto – costi di distribuzione (trasporti e margini di guadagno di grossisti e rivenditori finali). Nell’agricoltura il prezzo al dettaglio spesso supera di dieci volte quello alla produzione!
La competitività non la possiamo costruire limando i salari (che, in ogni caso, resterebbero superiori a quelli dei Paesi meno sviluppati) o risparmiando sulla sicurezza. La competitività la dobbiamo costruire sull’innovazione, la qualità, la riduzione della pressione fiscale, il supporto di strutture e amministrazioni efficienti. Tant’è che abbiamo salari tra i più bassi (anche per colpa della tassazione) dei Paesi OCSE, eppure non siamo altrettanto competitivi!
Lavori sottopagati e insicuri: è una situazione che ferisce la dignità degli immigrati e danneggia una parte di cittadini italiani, quelli delle fasce sociali più deboli, che sarebbero disposti a lavorare a condizioni migliori.
Peraltro, i lavori sottopagati rallentano l'innovazione, perché i bassi salarî rendono conveniente mantenere in vita anche lavori destinati a scomparire.
Aggiungiamo un’altra osservazione: gli immigrati non vengono a svolgere solo i lavori più umili, ma anche – col passare del tempo – lavori qualificati. Lavori appetiti, naturalmente, da un numero ancora maggiore di Italiani: operai non solo generici, ma specializzati; artigiani; commercianti; tassisti (magari alle dipendenze di società e cooperative); ecc. Prossimamente: ingegneri, matematici, chimici. Il che è giusto e inevitabile: non si può immaginare che l’immigrato sia confinato in una condizione di serie B.
Ma il problema è: c’è bisogno di questa manodopera? In che quantità? O si vuole creare una competizione che abbassi oltremisura il potere contrattuale dei lavoratori? Si vuole creare quello che Marx definiva “esercito industriale di riserva”? Certo, Marx sbagliava a considerare una condizione necessaria del capitalismo quella che era una condizione occasionale del mercato del lavoro (eccesso di offerta), di cui magari poteva approfittare la miopia di qualche capitalista senza scrupoli. L’economia di mercato, invece, è aiutata da salari alti, che creano domanda di consumo e stimolano l’economia. Però non dobbiamo fingere di non vedere che la miopia di qualche capitalista-imprenditore può ripresentarsi...
3.2. L'illusione di usare gli immigrati per pagare le pensioni.
Le riforme pensionistiche sin qui approvate non sono sufficienti a sanare lo squilibrio dei conti pensionistici, dovuto al fatto che le pensioni sin qui erogate sono molto più elevate dei contributi versati da quei lavoratori. Il "trucco" di pagare le pensioni con i contributi dei lavoratori ancora in attività non funziona più, a causa del calo demografico. I giovani che già sono entrati nel sistema a “capitalizzazione” dovranno versare ancora a lungo, oltre ai contributi per la propria pensione, i soldi per pagare le pensioni già erogate, ed anche per sostenere i servizi sociali (assistenza, sanità) necessarî ad una popolazione sempre più anziana.
E' illusorio pensare che il problema si possa risolvere favorendo l'immigrazione, per pagare le pensioni con i contributi dei lavoratori immigrati.
Innanzitutto, molti immigrati lavorano in nero, e quelli in regola esercitano attività scarsamente remunerative, versando di conseguenza contributi esigui; si porrà anzi il problema del loro trattamento pensionistico. Quand’anche si arrivasse ad una generazione di giovani lavoratori immigrati che abbia acquisito un importante peso politico e sociale, non è da trascurare il fatto che essi, probabilmente, si lamenteranno di essere “sfruttati” se si chiederà loro di “mantenere” gli italiani anziani.
La gravità del fenomeno può essere attenuata solo, in prospettiva, da una veloce ripresa demografica.
3.3. Gli immigrati strumentalizzati dalla sinistra estrema.
Marx era convinto che il capitalismo si reggesse solo sullo sfruttamento, per cui il suo collasso doveva essere inevitabile. La storia lo ha smentito.
Eppure non manca qualche comunista nostalgico che resta abbagliato da queste idee. Qualcuno convinto che “bisogna far esplodere le contraddizioni interne del capitalismo”, attirando masse di immigrati in numero tale che non possano essere assorbiti senza aspri conflitti sociali, e che si arrivi ad una “crisi di sistema”. Insomma: se il capitalismo non cade da solo... diamogli una mano!
Inoltre, questi nuovi immigrati in condizioni di disagio dovrebbero divenire un bacino elettorale per partiti che conoscono un inesorabile declino storico.
Qualcuno potrà essere abbagliato dalle argomentazioni ‘ufficiali’ di comunisti, “antagonisti”, “no global”: si parla di sviluppo globale, società più giusta, multiculturalità, ecc. Ma il loro vero pensiero può essere compreso se si seguono con attenzione le loro analisi e i loro comportamenti.
In questa sede possiamo ribadire solo, in estrema sintesi, che lo sfruttamento – interno e internazionale - è un abuso che può esistere ed esiste, ma non è la condizione stessa dell’economia di mercato. Lo sviluppo delle economie libere ha portato alla crescita e alla diffusione del benessere; il sottosviluppo che permane in alcuni Paesi poveri, causa dei fenomeni migratori, non dipende dalla ricchezza dei Paesi ricchi, come abbiamo spiegato meglio nella recensione del libro Poveri, perché?In aggiunta, vogliamo solo sottolineare il cinismo – tipico di quanti sono accecati da un’ideologia – che non guarda agli immigrati come persone, ma come “masse di manovra rivoluzionaria”; un cinismo che non si fa scrupolo di soffiare sul fuoco dello scontro tra le fasce sociali più deboli.
3.4. I sensi di colpa degli idealisti utopici.
Esistono alcuni convinti davvero che sia possibile accogliere tutti condividendo il nostro benessere. E che da questo incontro verranno spontaneamente progresso, crescita culturale, pace, ecc. A questa convinzione si aggiunge un certo senso di colpa – derivante anche dai luoghi comuni ereditati dal comunismo -, secondo cui i Paesi ricchi avrebbero la responsabilità della povertà nel mondo.
Ebbene, la speranza e la voglia di migliorare le cose sono una virtù. L’utopia e la mancanza di senso della realtà sono, invece, pericolosissime.
Accogliere milioni – miliardi? – di persone, in maniera rapida e incontrollata, non significa condividere la nostra ricchezza, ma la loro povertà. Strapparle alle loro terre, alle loro culture, significa far loro violenza, non essere solidali. Significa compromettere le possibilità di sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo, privati delle risorse umane più qualificate e volenterose.
Se davvero vogliamo esercitare la solidarietà, dobbiamo investire – molto di più di quanto fatto sinora – in interventi efficaci per lo sviluppo dei Paesi poveri.
3.5. I “multiculturalisti”.
Esiste non solo la necessità di regolare il numero degli immigrati, ma anche quella di creare le premesse per la loro integrazione.
3.7. I moralisti: “discutere l’immigrazione alimenta il razzismo”.
I moralisti sono coloro che amano salire su un pulpito e dare bacchettate, piuttosto che analizzare una questione. Se poi si sposano con gli apostoli del “politicamente corretto”, che hanno già in tasca la lista delle idee ammesse nel dibattito pubblico, e di quelle respinte perché “intolleranti”, allora il cocktail è micidiale...
Se c’è il rischio razzista che tutti gli stranieri, o tutti gli appartenenti a diverse etnie, vengano considerati pericolosi, questo rischio non lo si elimina imponendo la finzione che siano tutti angelici e migliori degli altri, in una sorta di “razzismo” rovesciato.
Se c’è il rischio di trascurare l’importanza del lavoro degli immigrati onesti, non bisogna rinunciare ad affrontare i problemi sociali ed economici che l’immigrazione comporta.
Se razzismo significa generalizzare, il suo contrario è distinguere, analizzare un fenomeno, porsi domande, cercare risposte.
Ancora una volta: l’immigrato onesto è danneggiato quando non si affrontano i problemi, oppure quando viene confuso con il criminale immigrato .Questa confusione viene incoraggiata anche quando ci si limita ai proclami contro la criminalità, o si finge di prendere provvedimenti che poi non vengono assunti: atteggiamenti tipici dei moralisti, che ai fatti preferiscono le parole.
3.8. I fatalisti: “l’immigrazione non si può fermare”.
Non parlano apertamente di immigrazione come risorsa, ma alla fine la incoraggiano ugualmente, quanti sostengono che si tratta di un “fenomeno epocale e inarrestabile”, che “è inutile alzare barriere”, che “l’Occidente non può rinchiudersi in una fortezza”, che “l’emigrazione è un fenomeno esistito in ogni epoca”, ecc. Frasi suggestive, che però non dicono granché. Esprimono una resa, scrollano le spalle di fronte ai drammi umani che i fenomeni migratori incontrollati portano con sé.
Il problema non è di fermare la storia o bloccare i fenomeni migratori. Il problema è di trovare il modo di gestirli: nessun Paese ha mai accettato un’immigrazione indiscriminata. Gli Stati Uniti d’America sono un Paese sorto proprio con le immigrazioni; qualcuno ricorda Ellis Island, l’isolotto alla foce del fiume Hudson dove gli immigrati venivano visitati, controllati, “filtrati” anche in base al rispetto delle quote stabilite?
Le modalità con le quali devono essere programmati i flussi (numero massimo per anno, per tipologia professionale, per Paese di provenienza) possono essere diverse. L’importante è che questa programmazione sia applicata rigorosamente, respingendo alle frontiere o riaccompagnando al Paese di provenienza chi non ha titolo e possibilità di essere accolto.
Ciò significa insensibilità verso i disperati? No, perché i flussi migratori non sono quasi mai alimentati spontaneamente da disperati, ma incanalati dalla criminalità organizzata. Si viene in Italia con ogni mezzo, perché si sa di non essere respinti. Ed anche quelli che partono con intenzioni poco oneste, scelgono il Paese considerato più “indulgente”. Quando invece si sa che l’immigrazione clandestina non offre prospettive, si scelgono altre vie.
La superficialità delle argomentazioni che fanno appello all’inevitabilità del fenomeno migratorio, del resto, deriva dal fatto che si tratta della via di fuga di chi resta a corto di argomenti nel magnificare le virtù di un’immigrazione senza controlli.
4. Quelli che dicono “l’immigrazione è un problema”.
Sino ad oggi hanno prevalso le tesi di quanti sono favorevoli a flussi immigratori consistenti, o comunque non ritengono di dover gestire il fenomeno. Ed abbiamo quindi accennato ai problemi che questa mancata gestione può comportare, e che stanno cominciando ad esplodere.
Ma è altrettanto parziale e fuorviante la visione di chi considera l’immigrazione solo un problema, una visione che sembra iniziare a farsi largo.
4.1. Gli stranieri tolgono lavoro agli Italiani?
Questa risposta può avere una risposta affermativa nei termini in cui ne abbiamo parlato all’inizio, cioè in caso di immigrazione incontrollata.
Ma la preoccupazione per il lavoro degli Italiani non può tradursi nella pretesa di una chiusura assoluta delle frontiere. L’esigenza di nuova manodopera, in quantità consistenti, non può essere ignorata.
Aggiungiamo che non serve solo “manodopera”, ma anche lavoro qualificato: nuove idee, nuovi cervelli, nuovi entusiasmi fanno crescere un Paese.
Anche una certa dose di concorrenza può stimolare gli Italiani a non sedersi sugli allori del “posto sicuro”, e a curare dunque la propria formazione e la propria crescita professionale. L’importante è che si tratti di una concorrenza di proporzioni complessivamente assorbibili dal mercato del lavoro.
4.2. Gli stranieri prosciugano le risorse di protezione sociale.
L’assistenza sociale agli stranieri che lavorano e pagano le tasse, e ai loro congiunti, non può essere negata. Non dimentichiamo che molti pensionati italiani vedono pagata la loro pensione con i contributi versati da lavoratori stranieri.
Altra cosa è consentire ricongiungimenti familiari estesi (genitori, fratelli, parenti), e garantire prestazioni assistenziali ad una categoria di beneficiari indefinita. Poiché le risorse per l’assistenza non sono infinite, ciò crea ovviamente inefficienze, ritardi, ingiustizie. Peraltro, questo tipo di assistenza “interna” costa molto di più di quella che sarebbe possibile offrire nel Paese di provenienza.
4.3. Quelli che dicono: “L’Italia agli Italiani”.
Se riteniamo che Italiani siano i cittadini che si riconoscono in un patrimonio di cultura e di valori condivisi, bisogna ricordare che questa categoria deve essere “aperta”: possono esserci nuovi Italiani, che – accettando l’integrazione - accolgono la cultura che li ospita e la arricchiscono col loro apporto. Come è già successo nei secoli precedenti.
Se invece qualcuno vuole cristallizzare la cultura italiana, vuole stabilire un anno zero in cui “Italiani” sono solo i figli dei cittadini attuali, bisogna ricordare che una civiltà muore non solo quando viene spazzata via, ma anche quando diventa sterile.
Senza contare le venature xenofobe o razziste di una difesa “etnica” dell’italianità.
4.4. Gli xenofobi.
I termini razzista e “xenofobo” (“colui che ha paura dello straniero”) sono spesso utilizzati con troppa disinvoltura dai militanti del moralismo antirazzista; sono marchi con cui mettere a tacere chi la pensa diversamente. Dare a qualcuno dello “xenofobo”, poi, sottintende malignamente che quel qualcuno non esprime un’idea (da criticare) ma manifesta i sintomi di una malattia, una “fobìa” (da curare).
Ciò detto, il razzismo e la xenofobia esistono. Non sono “malattie” individuali, ma “mali” culturali che possono emergere in particolari contesti storici e sociali.
Il razzismo, inteso come idea che esista una “inferiorità” genetica di altre “razze” o gruppi etnici, forse, ha una diffusione molto contenuta. Ma è talmente odioso – per quanto stupido – che richiede sempre la massima vigilanza.
La xenofobia, intesa come diffidenza verso lo “straniero” (identificato da lingua, cultura, religione, ecc.), e più in generale il “diverso”, ha invece più facilità ad attecchire.
Ebbene, per fare un esempio, è lecito esprimere l’opinione – non la certezza - che, in generale, molti francesi siano un po’ spocchiosi, fissati con la grandeur. Ma non si può sostenere che tutti i Francesi abbiano questa connotazione (così come non tutti gli Italiani sono cantanti o furbi o mafiosi). E, soprattutto, non si possono attuare comportamenti discriminatori rispetto alla singola persona (che magari è un francese simpaticissimo e umilissimo) sulla base di una considerazione generale.
Oppure: possiamo rilevare che alcune correnti della religione islamica esprimono intolleranza, o non pongono paletti chiari rispetto all’integralismo islamista, anche violento. Possiamo pretendere che nelle moschee si rispettino le leggi, e quindi non si propagandi l’odio o non si faccia il reclutamento di kamikaze. Ma non possiamo attribuire queste tentazioni a tutte le correnti islamiche, o anche solo a tutti gli adepti delle correnti più a rischio. E, soprattutto, non possiamo conculcare la libertà religiosa dei singoli musulmani.
La generalizzazione esprime una semplificazione forse comprensibile, ma inaccettabile se incide sui diritti e la dignità delle singole persone.
La paura del diverso può soddisfare il meccanismo psicologico della ricerca del “capro espiatorio”, particolarmente forte nelle situazioni di crisi sociale; ma non può mai rappresentare la soluzione di un problema.
Pensare che lo straniero in sé sia la causa dei mali di un Paese è un’idea astratta e irreale, oltre che inumana.
I fatti dicono che esistono tanti stranieri onesti, laboriosi, e disposti a integrarsi.
I fatti dicono che di questi stranieri abbiamo bisogno. Dal punto di vista della forza lavoro, ma anche dei capitali, degli apporti culturali.
E non solo. Viene denunciata giustamente l’alta incidenza della delinquenza di origine straniera, figlia della disperazione. Ma se guardiamo la natura della delinquenza di origine italiana, figlia di un benessere “sazio e disperato”; se guardiamo l’apatia che si diffonde nelle nostre città; allora viene da pensare che abbiamo bisogno anche della ricchezza umana degli immigrati…
L'ITALIA
L'immigrazione in Italia è un fenomeno relativamente recente, che ha cominciato a raggiungere dimensioni significative all'incirca nei primi anni settanta, per poi diventare un fenomeno caratterizzante della demografia italiana nei primi anni del XXI secolo. Al 1º gennaio 2009 l'Italia era il quarto Paese europeo per numero assoluto di stranieri residenti, dopo Germania (7,2 milioni), Spagna (5,7 milioni) e Regno Unito (4 milioni). In termini percentuali, tuttavia, si collocava undicesima.
L'Italia, per gran parte della sua storia recente è stato un paese di emigrazione; si stima che tra il 1876 e il 1976 partirono oltre 24 milioni di persone (con una punta massima nel 1913 di oltre 870.000 partenze), al punto che oggi si parla di grande emigrazione o diaspora italiana.
Per tutto questo periodo, il fenomeno dell'immigrazione era stato invece pressoché inesistente, ove si eccettuino le migrazioni dovute alle conseguenze della seconda guerra mondiale, come l'esodo istriano o il rientro degli italiani dalle ex-colonie d'Africa. Tali fenomeni tuttavia avevano un carattere episodico e non presentavano sostanziali problemi d'integrazione dal punto di vista sociale o culturale. L'Italia rimase tendenzialmente un paese dal saldo migratorio negativo; il fenomeno dell'emigrazione cominciò ad affievolirsi decisamente solo a partire dagli anni sessanta, dopo gli anni del miracolo economico.
In particolare, nel 1973, l'Italia ebbe per la prima volta un leggerissimo saldo migratorio positivo (101 ingressi ogni 100 espatri), caratteristica che sarebbe diventata costante, amplificandosi negli anni a venire. È da notare tuttavia che in tale periodo gli ingressi erano ancora in gran parte costituiti da emigranti italiani che rientravano nel Paese, piuttosto che da stranieri. Il flusso di stranieri cominciò a prendere consistenza solo verso la fine degli anni settanta, sia per la "politica delle porte aperte" praticata dall'Italia, sia per politiche più restrittive adottate da altri paesi. Nel 1981, il primo censimento Istat degli stranieri in Italia calcolava la presenza di 321.000 stranieri, di cui circa un terzo "stabili" e il rimanente "temporanei". Un anno dopo, nel 1982 veniva proposto un primo programma di regolarizzazione degli immigrati privi di documenti, mentre nel 1986 fu varata la prima legge in materia (L. 943 del 30.12.1986) con cui ci si poneva l'obiettivo di garantire ai lavoratori extracomunitari gli stessi diritti dei lavoratori italiani. Nel 1991 il numero di stranieri residenti era di fatto raddoppiato, passando a 625.000 unità.
Negli anni novanta il saldo migratorio ha continuato a crescere e, dal 1993 (anno in cui per la prima volta il saldo naturale è diventato negativo), è diventato il solo responsabile della crescita della popolazione italiana.
Nel 1990 veniva emanata la cosiddetta legge Martelli, che cercava per la prima volta di introdurre una programmazione dei flussi d'ingresso, oltre a costituire una sanatoria per quelli che si trovavano già nel territorio italiano: allo scadere dei sei mesi previsti vennero regolarizzati circa 200.000 stranieri, provenienti principalmente dal Nordafrica.
Nel 1991 l'Italia dovette anche confrontarsi con la prima "immigrazione di massa", dall'Albania (originata dal crollo del blocco comunista), risolta con accordi bilaterali. Negli anni seguenti ulteriori accordi bilaterali verranno stipulati con altri Paesi, principalmente dell'area mediterranea. Secondo dati stimati dalla Caritas, nel 1996 erano presenti in Italia 924.500 stranieri.
È del 1998 la legge Turco-Napolitano, che cercava di regolamentare ulteriormente i flussi in ingresso, cercando tra l'altro di scoraggiare l'immigrazione clandestina e istituendo, per la prima volta in Italia, i centri di permanenza temporanea per quegli stranieri "sottoposti a provvedimenti di espulsione". La materia sarà tuttavia regolamentata nuovamente nel 2002, con la cosiddetta legge Bossi-Fini, che prevede, tra l'altro, anche la possibilità dell'espulsione immediata dei clandestini da parte della forza pubblica.
Alla data del censimento della popolazione del 2001 risultavano presenti in Italia 1.334.889 stranieri, mentre le comunità maggiormente rappresentate erano quella marocchina (180.103 persone) e albanese (173.064); tale valore, nel 2005 era giunto a 1.990.159, mentre le comunità albanese e marocchina contavano, rispettivamente 316.000 e 294.000 persone.
Ogni discussione su questo tema, però, non può essere una fredda comparazione di costi e benefici. Non bisogna mai dimenticare che il “fenomeno” immigrazione è fatto dagli... immigrati: uomini in carne ed ossa, con le loro storie, le loro speranze, le loro paure e debolezze, i loro diritti (e i loro doveri), la loro creatività, la voglia di rendersi utili (o di approfittare delle situazioni), i loro vincoli familiari.
La dimensione dell’immigrato-uomo spesso è trascurata anche da coloro che vedono nell’immigrazione solo una risorsa, e che si vorrebbero porre come paladini degli immigrati. Ma vedremo che proprio la dimensione di umanità può essere calpestata e offesa, se l’immigrazione è incoraggiata senza nessuna gestione o controllo.
1. Problemi e benefici connessi all’immigrazione.
Esistono numerosi problemi che possono derivare da un’immigrazione eccessiva e non regolamentata, e che possono recar danno alla società, ma anche ferire la dignità stessa degli immigrati (come degli Italiani più deboli):
1. cattive condizioni di vita degli immigrati, sia dal punto di vista del lavoro (bassi salari, sicurezza e diritti precari) sia da quello dell'alloggio (alti prezzi di acquisto e affitto, condizioni malsane e sovraffollamento);
2. peggioramento delle condizioni di lavoro e di alloggio degli Italiani delle fasce più deboli, che entrano in competizione con gli immigrati;
3. scadimento di un sistema di protezione sociale gravato da troppo assistiti, con conseguenze negative per gli Italiani che non hanno la possibilità di pagarsi tutele privatistiche;
4. delinquenza degli immigrati senza lavoro. Una condizione di cui questi immigrati possono essere parzialmente anche vittime, perché arrivano con speranze non realizzabili. E vittime, ovviamente, sono i cittadini locali, soprattutto quelli dei quartieri dove si concentrano gli insediamenti di immigrati;
5. sfruttamento degli immigrati da parte della criminalità organizzata che gestisce i flussi migratori. Si va dall’impoverimento di immigrati che al loro Paese avevano una condizione di vita dignitosa, sono stati spinti a vendere tutto per pagare il viaggio, e non vedono realizzabili aspettative che spesso erano state enfatizzate da chi li ha incoraggiati a partire. Sino ad arrivare allo schiavismo e alla tratta delle giovani donne, indotte a partire con la promessa di lavoro e poi costrette alla prostituzione;
6. impoverimento dei Paesi di provenienza, privati delle risorse umane più intraprendenti e più pronte al sacrificio (l'ambasciatore rumeno Razvan Rusu ha denunciato che in Romania inizia ad esserci una forte carenza di manodopera: almeno 27mila lavoratori);
7. violenza sui soggetti deboli nelle comunità-ghetto di immigrati;
8. conflitti sociali ed economici, soprattutto tra le classi deboli italiane e immigrate (“guerra tra poveri”);
9. conflitti politici e culturali per l’esistenza di differenze inconciliabili su principî di convivenza e diritti fondamentali: idea della laicità dello Stato, diritti delle donne e dei minori, diversa sensibilità sull’esigenza di isolare violenza e terrorismo, ecc.Si badi bene: quelli che abbiamo passato in rassegna sono i problemi derivanti da un’immigrazione eccessiva e non regolamentata. Molti di questi problemi possono essere evitati se ci si sforza di gestire il fenomeno.
Inoltre, non bisogna dimenticare i nostri doveri di solidarietà, né i benefici e le risorse che pure vengono dall’immigrazione:
1. manodopera per numerosi settori in cui c’è carenza;
2. contributo di creatività e sviluppo economico anche in altri settori, perché l’economia cresce anche trasformandosi, innervata da nuove idee;
3. apporto positivo alla stabilità sociale derivante dallo spirito di laboriosità e di sacrificio tipico degli emigranti;
4. arricchimento culturale. Il rischio che l’incontro di culture diverse diventi scontro non deve far dimenticare l’opportunità che sia incontro fecondo.
2. I criterî fondamentali per “gestire” l’immigrazione.
Come dosare problemi e risorse? In che cosa consiste la “gestione”, la “regolamentazione” del fenomeno migratorio?
I criterî fondamentali sono a nostro avviso due:
2.1. Programmazione dei flussi.
L’immigrazione non è un “diritto” in sé. Ricordiamo che ad ogni diritto corrisponde un dovere, e che l’adempimento di questo dovere dev’essere possibile. (Ad esempio, possiamo dire che un figlio ha diritto alla migliore istruzione possibile; non che possa pretendere - da genitori che non ne hanno la possibilità – la frequenza di master all’estero).
Ciò nondimeno, esiste un dovere morale, di solidarietà umana, ad aiutare ed accogliere le persone in condizione di bisogno. Questo dovere deve essere esercitato, appunto, nei limiti in cui sia realisticamente possibile, nei limiti in cui l’accoglienza offerta sia dignitosa (non si può dire: “vieni e arrangiati”), nei limiti in cui consenta il rispetto del bene comune della società ospitante.
Possiamo e dobbiamo, dunque, accogliere gli immigrati – e le loro famiglie - ai quali siamo in grado di offrire un lavoro. Programmando il numero di coloro che possiamo accogliere, e assicurando il rispetto di questa programmazione (se necessario, con respingimenti alle frontiere e rimpatrî obbligati).
Inoltre, possiamo accogliere gli immigrati che abbiano effettivamente il desiderio di contribuire al bene comune della società che li ospita. Per chi delinque, non si può considerare un dovere di solidarietà garantire l’ “ospitalità” nelle nostre prigioni...
2.2. Integrazione degli immigrati.
Gli immigrati - a parte quelli temporanei (stagionali, per motivi di studio) - sono in larga parte persone che entrano in nuovo Paese per costruirsi una nuova vita, stabilirvisi a lungo, in molti casi per sempre. Ebbene, è necessario che questo inserimento avvenga senza conflitti con la società che li ospita, costruendo una graduale reciprocità di diritti e doveri.
Un immigrato, dunque, deve rispettare innanzi tutto le leggi del Paese che lo ospita. Non possono esserci zone franche, quartieri di immigrati, dove queste leggi (con particolare riguardo ai diritti fondamentali delle persone: diritti delle donne, dei bambini) non sono rispettate.
Rispettando tali leggi, l’immigrato potrà esigere il rispetto dei diritti umani e di libertà (personale, di inviolabilità del domicilio, di espressione, di religione, di tutela giudiziaria, di istruzione per i minori) che la Costituzione riconosce a chiunque soggiorni nel nostro territorio; nonché il rispetto dei diritti connessi alla propria prestazione lavorativa e dei diritti di prestazione economica connessi alle tasse versate.
A questo primo livello di integrazione – la capacità di rispettare regole comuni – ne dovrà seguire uno ulteriore: la cittadinanza. Si tratta dello status cui sono connessi i diritti civili e politici, cioè i diritti che la Costituzione riserva ai cives, ai cittadini: la pienezza del diritto a circolare e soggiornare in ogni parte del territorio e del diritto di associazione; la possibilità di ottenere politiche di sostegno sociale allargate; la possibilità di determinare (con il voto) gli indirizzi e le regole della comunità.
La necessità di graduare il godimento di tali diritti – e di pretendere il rispetto di corrispettivi doveri – deriva dal fatto che una comunità non si regge solo sulle leggi economiche, su logiche di scambio. Una comunità ha regole di convivenza sociale che sono l’espressione di valori comuni. Una comunità ha bisogno di legami di solidarietà che non possono essere imposti, ma si attivano se c’è reciproco riconoscimento tra i membri della comunità stessa.
Non si è più immigrati, ma cittadini a pieno titolo, dunque, dopo aver appreso la lingua di un Paese, dopo avervi vissuto un numero di anni sufficiente a comprenderne la mentalità e la cultura, e a condizione di condividere i valori fondamentali espressi dalla Carta costituzionale di quel Paese. Dopo che si è raggiunto, insomma, un pieno livello di integrazione. Convinzione che sembra maturare nella sinistra italiana (vedi le posizioni di Barbara Pollastrini).
I criterî che abbiamo delineato per la gestione dell’immigrazione potrebbero sembrare troppo rigidi o apodittici. Per approfondirli meglio, e comprenderne l’importanza, possiamo esaminare i luoghi comuni, i pregiudizî, le esigenze economiche, le ideologie politiche che animano il dibattito sulla materia, soprattutto da parte di coloro che – da fronti opposti - sono contrarî ad una gestione del fenomeno: o perché pensano che l’immigrazione debba essere assolutamente libera; o perché pensano che vada semplicemente impedita.
3. Quelli che dicono “l’immigrazione è una risorsa”.
Ma chi sono coloro che incoraggiano un’immigrazione intensa, con maglie larghe (o addirittura senza controlli)? Quali argomenti propongono?
3.1. La domanda di manodopera delle imprese.
Tra i fautori di un’immigrazione intensa ci sono molti imprenditori, che richiedono manodopera per i lavori “che gli Italiani non vogliono più fare”. Ma è davvero così?
Ci sono, effettivamente, alcuni lavori che negli ultimi anni, con la diffusione del benessere, gli Italiani amano sempre meno. Si tratta soprattutto delle attività considerate più “umili”, che richiedono grande fatica, che comportano rischi: badanti, operai non specializzati, braccianti agricoli.
La realtà non è però così semplice. Non è che in Italia si studi più che in passato: la percentuale di laureati è stabile, nonostante il percorso di studi sia spesso più facile e siano state create numerose opportunità di formazione specialistica “breve”. Molti Italiani cercano lavoro senza avere grande professionalità. Davvero sono tutti presuntuosi e sfaticati, davvero pretendono tutti un lavoro “dietro la scrivania”?
O non sarà che, spesso, certi lavori gli Italiani non li vogliono fare perché quei lavori sono mal pagati, perché non si è tutelati dai rischi mediante adeguate misure di sicurezza?
“Ma il costo della manodopera non può salire troppo, altrimenti le imprese non sono più competitive”. Anche qui, c’è parecchia ipocrisia.
Quanto incide la manodopera nel manifatturiero, uno dei settori più proiettati all’esportazione (e quindi con l’esigenza della competitività)? Il 20-30% del prezzo finale. Il resto è ripartito tra profitti, ricerca, costi per macchinari e processi di trasformazione, costi energetici, pubblicità e – soprattutto – costi di distribuzione (trasporti e margini di guadagno di grossisti e rivenditori finali). Nell’agricoltura il prezzo al dettaglio spesso supera di dieci volte quello alla produzione!
La competitività non la possiamo costruire limando i salari (che, in ogni caso, resterebbero superiori a quelli dei Paesi meno sviluppati) o risparmiando sulla sicurezza. La competitività la dobbiamo costruire sull’innovazione, la qualità, la riduzione della pressione fiscale, il supporto di strutture e amministrazioni efficienti. Tant’è che abbiamo salari tra i più bassi (anche per colpa della tassazione) dei Paesi OCSE, eppure non siamo altrettanto competitivi!
Lavori sottopagati e insicuri: è una situazione che ferisce la dignità degli immigrati e danneggia una parte di cittadini italiani, quelli delle fasce sociali più deboli, che sarebbero disposti a lavorare a condizioni migliori.
Peraltro, i lavori sottopagati rallentano l'innovazione, perché i bassi salarî rendono conveniente mantenere in vita anche lavori destinati a scomparire.
Aggiungiamo un’altra osservazione: gli immigrati non vengono a svolgere solo i lavori più umili, ma anche – col passare del tempo – lavori qualificati. Lavori appetiti, naturalmente, da un numero ancora maggiore di Italiani: operai non solo generici, ma specializzati; artigiani; commercianti; tassisti (magari alle dipendenze di società e cooperative); ecc. Prossimamente: ingegneri, matematici, chimici. Il che è giusto e inevitabile: non si può immaginare che l’immigrato sia confinato in una condizione di serie B.
Ma il problema è: c’è bisogno di questa manodopera? In che quantità? O si vuole creare una competizione che abbassi oltremisura il potere contrattuale dei lavoratori? Si vuole creare quello che Marx definiva “esercito industriale di riserva”? Certo, Marx sbagliava a considerare una condizione necessaria del capitalismo quella che era una condizione occasionale del mercato del lavoro (eccesso di offerta), di cui magari poteva approfittare la miopia di qualche capitalista senza scrupoli. L’economia di mercato, invece, è aiutata da salari alti, che creano domanda di consumo e stimolano l’economia. Però non dobbiamo fingere di non vedere che la miopia di qualche capitalista-imprenditore può ripresentarsi...
3.2. L'illusione di usare gli immigrati per pagare le pensioni.
Le riforme pensionistiche sin qui approvate non sono sufficienti a sanare lo squilibrio dei conti pensionistici, dovuto al fatto che le pensioni sin qui erogate sono molto più elevate dei contributi versati da quei lavoratori. Il "trucco" di pagare le pensioni con i contributi dei lavoratori ancora in attività non funziona più, a causa del calo demografico. I giovani che già sono entrati nel sistema a “capitalizzazione” dovranno versare ancora a lungo, oltre ai contributi per la propria pensione, i soldi per pagare le pensioni già erogate, ed anche per sostenere i servizi sociali (assistenza, sanità) necessarî ad una popolazione sempre più anziana.
E' illusorio pensare che il problema si possa risolvere favorendo l'immigrazione, per pagare le pensioni con i contributi dei lavoratori immigrati.
Innanzitutto, molti immigrati lavorano in nero, e quelli in regola esercitano attività scarsamente remunerative, versando di conseguenza contributi esigui; si porrà anzi il problema del loro trattamento pensionistico. Quand’anche si arrivasse ad una generazione di giovani lavoratori immigrati che abbia acquisito un importante peso politico e sociale, non è da trascurare il fatto che essi, probabilmente, si lamenteranno di essere “sfruttati” se si chiederà loro di “mantenere” gli italiani anziani.
La gravità del fenomeno può essere attenuata solo, in prospettiva, da una veloce ripresa demografica.
3.3. Gli immigrati strumentalizzati dalla sinistra estrema.
Marx era convinto che il capitalismo si reggesse solo sullo sfruttamento, per cui il suo collasso doveva essere inevitabile. La storia lo ha smentito.
Eppure non manca qualche comunista nostalgico che resta abbagliato da queste idee. Qualcuno convinto che “bisogna far esplodere le contraddizioni interne del capitalismo”, attirando masse di immigrati in numero tale che non possano essere assorbiti senza aspri conflitti sociali, e che si arrivi ad una “crisi di sistema”. Insomma: se il capitalismo non cade da solo... diamogli una mano!
Inoltre, questi nuovi immigrati in condizioni di disagio dovrebbero divenire un bacino elettorale per partiti che conoscono un inesorabile declino storico.
Qualcuno potrà essere abbagliato dalle argomentazioni ‘ufficiali’ di comunisti, “antagonisti”, “no global”: si parla di sviluppo globale, società più giusta, multiculturalità, ecc. Ma il loro vero pensiero può essere compreso se si seguono con attenzione le loro analisi e i loro comportamenti.
In questa sede possiamo ribadire solo, in estrema sintesi, che lo sfruttamento – interno e internazionale - è un abuso che può esistere ed esiste, ma non è la condizione stessa dell’economia di mercato. Lo sviluppo delle economie libere ha portato alla crescita e alla diffusione del benessere; il sottosviluppo che permane in alcuni Paesi poveri, causa dei fenomeni migratori, non dipende dalla ricchezza dei Paesi ricchi, come abbiamo spiegato meglio nella recensione del libro Poveri, perché?In aggiunta, vogliamo solo sottolineare il cinismo – tipico di quanti sono accecati da un’ideologia – che non guarda agli immigrati come persone, ma come “masse di manovra rivoluzionaria”; un cinismo che non si fa scrupolo di soffiare sul fuoco dello scontro tra le fasce sociali più deboli.
3.4. I sensi di colpa degli idealisti utopici.
Esistono alcuni convinti davvero che sia possibile accogliere tutti condividendo il nostro benessere. E che da questo incontro verranno spontaneamente progresso, crescita culturale, pace, ecc. A questa convinzione si aggiunge un certo senso di colpa – derivante anche dai luoghi comuni ereditati dal comunismo -, secondo cui i Paesi ricchi avrebbero la responsabilità della povertà nel mondo.
Ebbene, la speranza e la voglia di migliorare le cose sono una virtù. L’utopia e la mancanza di senso della realtà sono, invece, pericolosissime.
Accogliere milioni – miliardi? – di persone, in maniera rapida e incontrollata, non significa condividere la nostra ricchezza, ma la loro povertà. Strapparle alle loro terre, alle loro culture, significa far loro violenza, non essere solidali. Significa compromettere le possibilità di sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo, privati delle risorse umane più qualificate e volenterose.
Se davvero vogliamo esercitare la solidarietà, dobbiamo investire – molto di più di quanto fatto sinora – in interventi efficaci per lo sviluppo dei Paesi poveri.
3.5. I “multiculturalisti”.
Esiste non solo la necessità di regolare il numero degli immigrati, ma anche quella di creare le premesse per la loro integrazione.
3.7. I moralisti: “discutere l’immigrazione alimenta il razzismo”.
I moralisti sono coloro che amano salire su un pulpito e dare bacchettate, piuttosto che analizzare una questione. Se poi si sposano con gli apostoli del “politicamente corretto”, che hanno già in tasca la lista delle idee ammesse nel dibattito pubblico, e di quelle respinte perché “intolleranti”, allora il cocktail è micidiale...
Se c’è il rischio razzista che tutti gli stranieri, o tutti gli appartenenti a diverse etnie, vengano considerati pericolosi, questo rischio non lo si elimina imponendo la finzione che siano tutti angelici e migliori degli altri, in una sorta di “razzismo” rovesciato.
Se c’è il rischio di trascurare l’importanza del lavoro degli immigrati onesti, non bisogna rinunciare ad affrontare i problemi sociali ed economici che l’immigrazione comporta.
Se razzismo significa generalizzare, il suo contrario è distinguere, analizzare un fenomeno, porsi domande, cercare risposte.
Ancora una volta: l’immigrato onesto è danneggiato quando non si affrontano i problemi, oppure quando viene confuso con il criminale immigrato .Questa confusione viene incoraggiata anche quando ci si limita ai proclami contro la criminalità, o si finge di prendere provvedimenti che poi non vengono assunti: atteggiamenti tipici dei moralisti, che ai fatti preferiscono le parole.
3.8. I fatalisti: “l’immigrazione non si può fermare”.
Non parlano apertamente di immigrazione come risorsa, ma alla fine la incoraggiano ugualmente, quanti sostengono che si tratta di un “fenomeno epocale e inarrestabile”, che “è inutile alzare barriere”, che “l’Occidente non può rinchiudersi in una fortezza”, che “l’emigrazione è un fenomeno esistito in ogni epoca”, ecc. Frasi suggestive, che però non dicono granché. Esprimono una resa, scrollano le spalle di fronte ai drammi umani che i fenomeni migratori incontrollati portano con sé.
Il problema non è di fermare la storia o bloccare i fenomeni migratori. Il problema è di trovare il modo di gestirli: nessun Paese ha mai accettato un’immigrazione indiscriminata. Gli Stati Uniti d’America sono un Paese sorto proprio con le immigrazioni; qualcuno ricorda Ellis Island, l’isolotto alla foce del fiume Hudson dove gli immigrati venivano visitati, controllati, “filtrati” anche in base al rispetto delle quote stabilite?
Le modalità con le quali devono essere programmati i flussi (numero massimo per anno, per tipologia professionale, per Paese di provenienza) possono essere diverse. L’importante è che questa programmazione sia applicata rigorosamente, respingendo alle frontiere o riaccompagnando al Paese di provenienza chi non ha titolo e possibilità di essere accolto.
Ciò significa insensibilità verso i disperati? No, perché i flussi migratori non sono quasi mai alimentati spontaneamente da disperati, ma incanalati dalla criminalità organizzata. Si viene in Italia con ogni mezzo, perché si sa di non essere respinti. Ed anche quelli che partono con intenzioni poco oneste, scelgono il Paese considerato più “indulgente”. Quando invece si sa che l’immigrazione clandestina non offre prospettive, si scelgono altre vie.
La superficialità delle argomentazioni che fanno appello all’inevitabilità del fenomeno migratorio, del resto, deriva dal fatto che si tratta della via di fuga di chi resta a corto di argomenti nel magnificare le virtù di un’immigrazione senza controlli.
4. Quelli che dicono “l’immigrazione è un problema”.
Sino ad oggi hanno prevalso le tesi di quanti sono favorevoli a flussi immigratori consistenti, o comunque non ritengono di dover gestire il fenomeno. Ed abbiamo quindi accennato ai problemi che questa mancata gestione può comportare, e che stanno cominciando ad esplodere.
Ma è altrettanto parziale e fuorviante la visione di chi considera l’immigrazione solo un problema, una visione che sembra iniziare a farsi largo.
4.1. Gli stranieri tolgono lavoro agli Italiani?
Questa risposta può avere una risposta affermativa nei termini in cui ne abbiamo parlato all’inizio, cioè in caso di immigrazione incontrollata.
Ma la preoccupazione per il lavoro degli Italiani non può tradursi nella pretesa di una chiusura assoluta delle frontiere. L’esigenza di nuova manodopera, in quantità consistenti, non può essere ignorata.
Aggiungiamo che non serve solo “manodopera”, ma anche lavoro qualificato: nuove idee, nuovi cervelli, nuovi entusiasmi fanno crescere un Paese.
Anche una certa dose di concorrenza può stimolare gli Italiani a non sedersi sugli allori del “posto sicuro”, e a curare dunque la propria formazione e la propria crescita professionale. L’importante è che si tratti di una concorrenza di proporzioni complessivamente assorbibili dal mercato del lavoro.
4.2. Gli stranieri prosciugano le risorse di protezione sociale.
L’assistenza sociale agli stranieri che lavorano e pagano le tasse, e ai loro congiunti, non può essere negata. Non dimentichiamo che molti pensionati italiani vedono pagata la loro pensione con i contributi versati da lavoratori stranieri.
Altra cosa è consentire ricongiungimenti familiari estesi (genitori, fratelli, parenti), e garantire prestazioni assistenziali ad una categoria di beneficiari indefinita. Poiché le risorse per l’assistenza non sono infinite, ciò crea ovviamente inefficienze, ritardi, ingiustizie. Peraltro, questo tipo di assistenza “interna” costa molto di più di quella che sarebbe possibile offrire nel Paese di provenienza.
4.3. Quelli che dicono: “L’Italia agli Italiani”.
Se riteniamo che Italiani siano i cittadini che si riconoscono in un patrimonio di cultura e di valori condivisi, bisogna ricordare che questa categoria deve essere “aperta”: possono esserci nuovi Italiani, che – accettando l’integrazione - accolgono la cultura che li ospita e la arricchiscono col loro apporto. Come è già successo nei secoli precedenti.
Se invece qualcuno vuole cristallizzare la cultura italiana, vuole stabilire un anno zero in cui “Italiani” sono solo i figli dei cittadini attuali, bisogna ricordare che una civiltà muore non solo quando viene spazzata via, ma anche quando diventa sterile.
Senza contare le venature xenofobe o razziste di una difesa “etnica” dell’italianità.
4.4. Gli xenofobi.
I termini razzista e “xenofobo” (“colui che ha paura dello straniero”) sono spesso utilizzati con troppa disinvoltura dai militanti del moralismo antirazzista; sono marchi con cui mettere a tacere chi la pensa diversamente. Dare a qualcuno dello “xenofobo”, poi, sottintende malignamente che quel qualcuno non esprime un’idea (da criticare) ma manifesta i sintomi di una malattia, una “fobìa” (da curare).
Ciò detto, il razzismo e la xenofobia esistono. Non sono “malattie” individuali, ma “mali” culturali che possono emergere in particolari contesti storici e sociali.
Il razzismo, inteso come idea che esista una “inferiorità” genetica di altre “razze” o gruppi etnici, forse, ha una diffusione molto contenuta. Ma è talmente odioso – per quanto stupido – che richiede sempre la massima vigilanza.
La xenofobia, intesa come diffidenza verso lo “straniero” (identificato da lingua, cultura, religione, ecc.), e più in generale il “diverso”, ha invece più facilità ad attecchire.
Ebbene, per fare un esempio, è lecito esprimere l’opinione – non la certezza - che, in generale, molti francesi siano un po’ spocchiosi, fissati con la grandeur. Ma non si può sostenere che tutti i Francesi abbiano questa connotazione (così come non tutti gli Italiani sono cantanti o furbi o mafiosi). E, soprattutto, non si possono attuare comportamenti discriminatori rispetto alla singola persona (che magari è un francese simpaticissimo e umilissimo) sulla base di una considerazione generale.
Oppure: possiamo rilevare che alcune correnti della religione islamica esprimono intolleranza, o non pongono paletti chiari rispetto all’integralismo islamista, anche violento. Possiamo pretendere che nelle moschee si rispettino le leggi, e quindi non si propagandi l’odio o non si faccia il reclutamento di kamikaze. Ma non possiamo attribuire queste tentazioni a tutte le correnti islamiche, o anche solo a tutti gli adepti delle correnti più a rischio. E, soprattutto, non possiamo conculcare la libertà religiosa dei singoli musulmani.
La generalizzazione esprime una semplificazione forse comprensibile, ma inaccettabile se incide sui diritti e la dignità delle singole persone.
La paura del diverso può soddisfare il meccanismo psicologico della ricerca del “capro espiatorio”, particolarmente forte nelle situazioni di crisi sociale; ma non può mai rappresentare la soluzione di un problema.
Pensare che lo straniero in sé sia la causa dei mali di un Paese è un’idea astratta e irreale, oltre che inumana.
I fatti dicono che esistono tanti stranieri onesti, laboriosi, e disposti a integrarsi.
I fatti dicono che di questi stranieri abbiamo bisogno. Dal punto di vista della forza lavoro, ma anche dei capitali, degli apporti culturali.
E non solo. Viene denunciata giustamente l’alta incidenza della delinquenza di origine straniera, figlia della disperazione. Ma se guardiamo la natura della delinquenza di origine italiana, figlia di un benessere “sazio e disperato”; se guardiamo l’apatia che si diffonde nelle nostre città; allora viene da pensare che abbiamo bisogno anche della ricchezza umana degli immigrati…
L'ITALIA
L'immigrazione in Italia è un fenomeno relativamente recente, che ha cominciato a raggiungere dimensioni significative all'incirca nei primi anni settanta, per poi diventare un fenomeno caratterizzante della demografia italiana nei primi anni del XXI secolo. Al 1º gennaio 2009 l'Italia era il quarto Paese europeo per numero assoluto di stranieri residenti, dopo Germania (7,2 milioni), Spagna (5,7 milioni) e Regno Unito (4 milioni). In termini percentuali, tuttavia, si collocava undicesima.
L'Italia, per gran parte della sua storia recente è stato un paese di emigrazione; si stima che tra il 1876 e il 1976 partirono oltre 24 milioni di persone (con una punta massima nel 1913 di oltre 870.000 partenze), al punto che oggi si parla di grande emigrazione o diaspora italiana.
Per tutto questo periodo, il fenomeno dell'immigrazione era stato invece pressoché inesistente, ove si eccettuino le migrazioni dovute alle conseguenze della seconda guerra mondiale, come l'esodo istriano o il rientro degli italiani dalle ex-colonie d'Africa. Tali fenomeni tuttavia avevano un carattere episodico e non presentavano sostanziali problemi d'integrazione dal punto di vista sociale o culturale. L'Italia rimase tendenzialmente un paese dal saldo migratorio negativo; il fenomeno dell'emigrazione cominciò ad affievolirsi decisamente solo a partire dagli anni sessanta, dopo gli anni del miracolo economico.
In particolare, nel 1973, l'Italia ebbe per la prima volta un leggerissimo saldo migratorio positivo (101 ingressi ogni 100 espatri), caratteristica che sarebbe diventata costante, amplificandosi negli anni a venire. È da notare tuttavia che in tale periodo gli ingressi erano ancora in gran parte costituiti da emigranti italiani che rientravano nel Paese, piuttosto che da stranieri. Il flusso di stranieri cominciò a prendere consistenza solo verso la fine degli anni settanta, sia per la "politica delle porte aperte" praticata dall'Italia, sia per politiche più restrittive adottate da altri paesi. Nel 1981, il primo censimento Istat degli stranieri in Italia calcolava la presenza di 321.000 stranieri, di cui circa un terzo "stabili" e il rimanente "temporanei". Un anno dopo, nel 1982 veniva proposto un primo programma di regolarizzazione degli immigrati privi di documenti, mentre nel 1986 fu varata la prima legge in materia (L. 943 del 30.12.1986) con cui ci si poneva l'obiettivo di garantire ai lavoratori extracomunitari gli stessi diritti dei lavoratori italiani. Nel 1991 il numero di stranieri residenti era di fatto raddoppiato, passando a 625.000 unità.
Negli anni novanta il saldo migratorio ha continuato a crescere e, dal 1993 (anno in cui per la prima volta il saldo naturale è diventato negativo), è diventato il solo responsabile della crescita della popolazione italiana.
Nel 1990 veniva emanata la cosiddetta legge Martelli, che cercava per la prima volta di introdurre una programmazione dei flussi d'ingresso, oltre a costituire una sanatoria per quelli che si trovavano già nel territorio italiano: allo scadere dei sei mesi previsti vennero regolarizzati circa 200.000 stranieri, provenienti principalmente dal Nordafrica.
Nel 1991 l'Italia dovette anche confrontarsi con la prima "immigrazione di massa", dall'Albania (originata dal crollo del blocco comunista), risolta con accordi bilaterali. Negli anni seguenti ulteriori accordi bilaterali verranno stipulati con altri Paesi, principalmente dell'area mediterranea. Secondo dati stimati dalla Caritas, nel 1996 erano presenti in Italia 924.500 stranieri.
È del 1998 la legge Turco-Napolitano, che cercava di regolamentare ulteriormente i flussi in ingresso, cercando tra l'altro di scoraggiare l'immigrazione clandestina e istituendo, per la prima volta in Italia, i centri di permanenza temporanea per quegli stranieri "sottoposti a provvedimenti di espulsione". La materia sarà tuttavia regolamentata nuovamente nel 2002, con la cosiddetta legge Bossi-Fini, che prevede, tra l'altro, anche la possibilità dell'espulsione immediata dei clandestini da parte della forza pubblica.
Alla data del censimento della popolazione del 2001 risultavano presenti in Italia 1.334.889 stranieri, mentre le comunità maggiormente rappresentate erano quella marocchina (180.103 persone) e albanese (173.064); tale valore, nel 2005 era giunto a 1.990.159, mentre le comunità albanese e marocchina contavano, rispettivamente 316.000 e 294.000 persone.
CIO'CHE STA SUCCEDENDO IN ITALIA
La situazione di Lampedusa è «insostenibile e inaccettabile». L'isola scoppia, dice Giorgio Napolitano e le Regioni, «tutte le Regioni» devono fare la loro parte. Ma il capo dello Stato chiede «coesione e solidarietà» anche alla Ue. «È un'emergenza che tutta l'Europa deve sentire come propria. Bisogna intensificare, e già lo si sarebbe dovuto fare nei giorni scorsi, l'afflusso di mezzi che possano portare via da lì gran parte degli sbarcati»
Napolitano è in visita a New York e parla dall'isola di Ellis Island, luogo simbolo della nostra emigrazione. Un secolo dopo le parti si sono invertite e stavolta l'Italia è stata lasciata sola «davanti al problema dell'afflusso di immigrati sulle nostre coste italiane dal Nord Africa». C'è bisogno quindi «di politiche univoche sia sull'immigrazione che sull'asilo politico». Certo, pure noi intanto possiamo fare di più. «Le notizie che arrivano da Lampedusa parlano di una situazione inaccettabile. Di fronte a immagini che abbiamo visto tutti, non può l'Italia, non possono le singole Regioni, dare uno spettacolo di incertezza e divisione. Lancio un appello allo spirito di solidarietà e coesione che si deve mantenere. Non è possibile che in una regione si accettino sacrifici e in un'altra no».
Quanto a Gheddafi, ormai se ne deve andare perchè «non ha più la legittimazione internazionale». Il capo dello Stato auspica che il Colonnello e il suo governo lo capiscano in fretta. «La speranza è che ci siano nuove forze in Libia per assicurare un nuovo governo, più aperto e più disponibile a soddisfare le aspirazioni di liberà e giustizia della gente libica». E Roma può avere un ruolo per dopo, può giocarsi le sue carte.
L'Italia, com'è noto, «ha importanti relazioni con la Libia nel campo dell'energia» ma «non sono decisive per la nostra economia perchè altrettanto importanti relazioni le abbiamo con altri Paesi della stessa area». Per esempio, possiamo contare su forniture di gas dall'Algeria e molto sul gas della Russia. Per questo, spiega Napolitano, «non abbiamo problemi sulla politica energetica e possiamo gestire la crisi libica. E questo, conclude «è il motivo per il quale diamo il nostro contributo alle operazioni delle Nazioni Unite in modo da avere una nuova, più stabile e più sostenibile situazione in Libia e in modo da continuare, come nel passato, ad avere utili relazioni con Tripoli in diversi settori economici».
A volte noi giudichiamo gli immigrati in modo poco corretto solo perchè spesso sono alcuni di loro a compiere atti incivili. Ma sono solo alcuni e non tutti a fare ciò ma noi spesso questo non riusciamo a carpirlo e li giudichiamo tutti allo stesso modo.
RispondiEliminaIl problema degli stranieri è complesso e non riguarda certamente solo gli albanesi e i rom. In sostanza, per quelli che vengono qui con la voglia di costruire, di lavorare e di rispettare le nostre leggi e le nostre tradizioni, non vedo particolari problemi. È giusto che lo Stato gli dia una mano, soprattutto se sono persone che hanno bisogno. Tutto diventa più difficile per quelli che infrangono le leggi, pretendono di essere assistiti, mamtnuti e non rispettano l'ambiente in cui vivono ecc.Per costoro, al pari dei nostri connazionali che si comportano così, ci vorrebbe molta più severità, fermezza e, soprattutto, certezza della pena quando commettono un reato!
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